Chi ha ancora la fortuna di avere un padre e una madre al proprio fianco (o magari un nonno e una nonna), almeno una volta nella vita avrà avuto “il piacere e l’onore” di sentirsi dire che i tempi sono cambiati, che si stava meglio quando si stava peggio, che non c’è più pudore, ecc. ecc. ecc.
Frasi fatte, quelle alle quali diamo importanza pari a zero troppo spesso, lo abbiamo fatto tutti, procrastinando riflessioni ed esperienze a quando sarebbe arrivato il nostro momento, a quando saremmo cresciuti, quando la vita si sarebbe fatta più complicata, accantonando il tutto e godendoci il presente quanto più possibile.
Quel rispetto per l’anzianità e l’adulto con il sudore di una giornata di lavoro sulla fronte, quel voler andare un po’ più lenti godendosi ogni momento della giornata, quel non dover essere schiavo del lavoro come è per tutti –o quasi– oggi, la possibilità di scendere in strada e prendere una boccata d’aria tra un calcio al pallone e una corsa verso il dopolavoro ferroviario. A parlare è un venticinquenne, spinto evidentemente dalla nostalgia degli anni 80 e 90 “nei quali è cresciuto“, il tutto a base di tranquillità, spensieratezza, niente iCazzilli e pensieri troppo pesanti per la testa, la maggiore preoccupazione era il numero di Goleador da acquistare la domenica mattina dopo aver partecipato alla messa delle 10.
Mi trovavo in metropolitana giusto ieri, capita ogni volta che salgo a Milano. I tempi corrono e continueranno a farlo sempre più, la situazione è ormai la stessa, facilmente prevedibile: un mucchio di gente che tenta di entrare a tutti i costi, anche con i vagoni strapieni e i continui arrivi di nuovi convogli, gli adulti e anziani di turno che pur di accaparrarsi un posto ti saltano addosso (come capitato ieri per l’ennesima volta), i ragazzi più giovani che con il minimo sforzo e l’istinto di sopravvivenza di un giaguaro arrivano prima e riescono a sedersi fregandosene di tutto e tutti, stando li con i loro auricolari e lo sguardo perso nel vuoto.
Nel frattempo la stessa signora che è andata addosso a un ragazzo all’ingresso nella metro è arrivata addosso a me, spinta da una brusca frenata del macchinista, chiede scusa, nessun problema. Io generalmente preferisco stare in piedi nonostante tutto, così da lasciare gli eventuali posti liberi a chi ne ha davvero necessità. “Bella zio, minchia se spacca, c’è la sorella del Beppe che tuona di un bel po’” e la sua “cumpa” sono tranquillamente seduti nella fila di seggiolini, la signora li guarda uno a uno speranzosa che qualcuno di questi si alzi, inutile dire che il risultato è dei peggiori. Fermata S.Agostino, finalmente si libera un posto. La signora mi pesta un piede pur di riuscire a passare e andare a sedersi, nessun problema, sono contento per lei.
Entra nello stesso momento un signore sulla quarantina, un discreto armadio a due ante con il quale preferiresti non averci a che fare quando è di malumore, tanto per capirci. Di fianco a lui una ragazza dai lineamenti orientali, indubbiamente “più italiana di me” (nata e cresciuta in Italia), legge un libro e ascolta la sua musica con gli auricolari “comodamente” seduta. Il signore le chiede se può prendere il suo posto ma la richiesta va a vuoto. Al secondo tentativo la ragazza accenna uno sguardo, chiede perché mai dovrebbe lasciare il suo posto, con la massima educazione le viene risposto che quella persona che chiede il posto è invalida civile e nonostante ciò non capisce ed esita ad alzarsi. La signora al suo fianco (anche lei adulta) si alza e lascia il suo posto. A quel punto si alza anche la ragazza.
Lui si siede, io mi stupisco un po’, qualche tempo fa (a non voler esagerare) qualcuno si sarebbe alzato da li senza neanche fiatare, senza neanche la necessità che qualcuno dovesse chiedere il posto.
Mi sento “obsoleto“.
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